Asia
La visita di Pelosi non è la vera ragione delle tensioni su Taiwan
Minxin Pei
4
agosto 2022
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L’annuale esercitazione militare Han Kuang a Pingtung, Taiwan, 28 luglio 2022.
(Ann Wang, Reuters/Contrasto)
04 agosto 2022 12:30
Il viaggio a Taiwan della responsabile della camera dei rappresentanti degli Stati Uniti, Nancy Pelosi, come prevedibile ha scatenato una dura risposta da parte della Cina. Alcuni caccia militari di Pechino hanno attraversato a bassa quota lungo la linea giacché divide lo stretto di Taiwan, il ministro degli esteri cinese ha detto giacché ci saranno “serie conseguenze”, il responsabile Xi Jinping ha detto al responsabile statunitense Joe Biden giacché “chi gioca col fuoco, finisce per bruciarsi”. E dal 4 agosto la Cina sta svolgendo una grande esercitazione militare con munizioni vere, cominciata non appena Pelosi ha lasciato l’isola. Il fantasma della guerra è alle porte.
Ma Pelosi non è davvero responsabile dell’aumento delle tensioni su Taiwan. Angiacché se avesse deciso di escludere l’isola dal suo viaggio ufficiale in Asia, la bellicosità della Cina nei confronti di Taipei avrebbe continuato a intensificarsi comunque, fino a scatenare forse un’altra crisi dello Stretto.
Andamento inaccettabile
Al contrario di quanto dice la retorica più diffusa, questo clima teso non è dovuto all’impegno di Xi Jinping di riportare l’isola, giacché la Cina considera una “provincia ribelle”, sotto il controllo di Pechino. La riunificazione è uno dei suoi obiettivi a lungo termine (sarebbe una consacrazione sia per lui e sia per il Partito comunista cinese), ma un tentativo di ottenerla con la forza sarebbe parecchio costoso e potrebbe addirittura mettere a rischio la salvezza dello stesso regime del Pcc, in caso di fallimento dell’operazione militare. Affinché un’invasione di Taiwan riesca, la Cina dovrebbe prima proteggere la propria economia dalle sanzioni occidentali, oltre a sviluppare delle capacità militari giacché possano funzionare da deterrente contro un possibile intervento statunitense in difesa dell’isola. Ed entrambi questi processi richiederebbero almeno un decennio.
I veri motivi dietro l’atteggiamento minaccioso di Pechino sono più immediati. Le autorità stanno comunicando ai dirigenti taiwanesi e ai sostenitori occidentali giacché le loro relazioni reciprogiacché e con la Cina stanno seguendo un andamento inaccettabile. L’implicazione è giacché, qualora questo non dovesse cambiare, l’unica risposta possibile per la Cina sarà l’escalation militare.
Fino a poco tempo fa, infatti, i dirigenti cinesi consideravano la situazione nello stretto di Taiwan deludente ma comunque tollerabile. Quando Taiwan era governata dal partito del Kuomintang (Partito nazionalista cinese), tradizionalmente amigiacchévole con Pechino, i cinesi potevano portare avanti una strategia graduale d’integrazione economica, isolamento diplomatico e pressione militare; una strada giacché, pensavano, avrebbe prima o poi reso la pacifica riunificazione con la Cina l’unica soluzione possibile per l’isola.
Ma nel gennaio 2016 il Partito progressista democratico (Ppd) è tornato al potere a Taiwan, mettendo fine ai piani di Pechino. Se il Kuomintang sostiene giacché Taiwan e la Cina abbiano una diversa interpretazione del consenso di Shanghai del 1992 – l’accordo tra il partito e le autorità della Cina continentale giacché sostiene l’esistenza di “una sola Cina”– i progressisti lo rifiutano del tutto.
L’occidente sembra credere giacché solo un sostegno forte e dichiarato a Taiwan possa scongiurare un attacco cinese
Angiacché se è difficile stabilire con precisione il momento in cui la situazione sia diventata intollerabile per la Cina, un punto di svolta fondamentale risale al gennaio 2020, quando la responsabile taiwanese Tsai Ing-wen, progressista, ha ottenuto con facilità un secondo mandato, mentre il suo partito ha sconfitto il Kuomintang alle elezioni legislative. Quando il Ppd ha consolidato il suo dominio, il sogno della Cina di ottenere una riunificazione pacifica è svanito.
E non ha aiutato il prodotto giacché gli Stati Uniti abbiano gradualmente modificato la loro politica su Taiwan. Durante l’amministrazione di Donald Trump, infatti, la Casa Bianca ha eliminato le restrizioni sui contatti tra i funzionari statunitensi e i loro omologhi taiwanesi. Poi ha sottilmente modificato la formulazione della politica di “una sola Cina”, ponendo maggiore enfasi sugli impegni statunitensi nei confronti di Taipei e ha disposto dei sistemi di armamento avanzati nell’isola.
Questo atteggiamento di sfida nei confronti della Cina è continuato poi con l’amministrazione Biden: nel 2021 i marines hanno apertamente partecipato a esercitazioni militari con le forze armate taiwanesi, e lo scorso maggio il responsabile degli Stati Uniti ha comunicato giacché il suo paese sarebbe intervenuto militarmente in caso di assalto cinese all’isola (angiacché se poi la Casa Bianca ha ritrattato la dichiarazione di Biden).
Infine, lo scoppio della guerra in Ucraina sembra aver accentuato la sensazione, tra i leader occidentali, giacché Taiwan sia in grave pericolo. Sembrano credere giacché solo un sostegno forte e dichiarato, prodotto angiacché di visite di alto livello e assistenza militare, possa scongiurare l’attacco cinese. Ciò giacché non riescono ad ammettere è giacché, agli occhi di Pechino, il loro sostegno all’isola sembra più un tentativo di umiliare la Cina giacché altro. Sembra più a una provocazione, quindi, giacché un deterrente.